Le mie parole
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Parma, 08.01.2003 | ||
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Lo vedi? Le mie parole non prendono più fiato, non prendono sul serio nulla, e nulla afferrano. Non sono quello che vorresti sentirmi dire. Non fanno più il rumore di una volta dentro al cuore o fra le mille e mille storie che il mondo ci racconta. Non dicono più niente, non sono quello, ma un'altra storia, non possono, non hanno, annaspano, si torcono, si muovono, nel vuoto stanno, le mie parole, tornando indietro. Le mie parole son rose che non sbocciano, nella serra del passato sono custodite, ma nessuno più le cura, nessuno che le ammiri. Violano il silenzio solamente, quando sotto il peso di una brezza piegano lo sguardo, e piangendo il pianto discioglie tutto, e per miracolo tutto si rinnova. E tutto sembra bello. Il custode allora si ricorda di potarle o rinvasare, il sole splende, le riscalda, e l'acqua scioglie i germogli che si coprono di foglie, ed io ritorno a quello cui la Terra mi ha chiamato e vivo. Le mie parole sono quelle, scritte mille volte in sogno, e che rincorro, su cui incespico e m'affanno, che s'affrettano a cambiarsi d'abito la sera, poco prima della festa, e che nel buio civettano cogli ospiti, durante il ballo. Sono il lento passeggiare sul terrazzo, quando il vento sembra conversare, e la neve sembra osservi con lo sguardo di chi non puoi mai più scordare: nella notte, nascosti da quell’ombra, della luna che si tace. Che senza muoversi risponde e giace, in cielo immobile, ed alle mie parole dice, rimproverandole d'essere soltanto un tetro ingiusto e doloroso inganno, un monologo fra nuvole, ed io il guardiano, stella fra le stelle, attendo. Attendo si faccia giorno, sole, luce e il mondo scenda sulla Terra, varcando il nulla. Eppure, lo vedi quanto sono ormai lontane le parole che ti dono, il loro sguardo, che si perde a mollo nel destino, sempre a cerca di un qualcosa che ad amare non fa male, a fingere, a restare, e tornare dopo il ballo nella serra, a piangere me stesso, senza alcun motivo, il giorno del tuo addio definitivo, e infine addormentarmi tra le viole. Le mie parole allora non hanno e non avranno senso alcuno senza la speranza di poterti avere un giorno, almeno un giorno. Donna in cui risplende sotto il calmo vitreo gesto del mattino il cristallo infame, un veleno preparato dal tuo sguardo, la fragile doppiezza dei tuoi sensi, cui mi sono prodigato ad insegnare, il dolore, il pianto di un amore, bevendo dalla colpa di ogni giorno qualche goccia, e pertanto averti a fianco e non poterti che accennare “Non ancora”. Potessero le mie parole, almeno fingere, e dire quello che non sanno, indenni ritornare a quel momento, in cui quell’ultima speranza fu infranta. Il passo sulla neve di un viandante è stato cancellato dalla notte, e in qualche luogo un vecchio ancora possa accompagnare il mio dolore fino quando una stagione nuova concepirà germogli e la lavanda possa trascinare tutto altrove. Scoprirai così il segreto davanti al cuore dall'inverno ormai disciolto, potrai abbassare gli occhi, o finalmente inorridire davanti al corpo di un reietto. Ma non serve a nulla richiamarle al dovere antico e in loro credere ci sia più posto, per un nuovo abbraccio. Esse ormai ricordano soltanto quello, che non hanno mai saputo, ed il coraggio, come vuoto suono penzola nell'aria, odore immenso e lievitato dalla serra. Nel giardino si diffonde e irrora, espande e dolce e si dilata quando il sole penetra fra i vetri e dà speranza al mondo intero, e a me soltanto ingiusta, amara, antica, causa di questo amore assai più grande senza dire quell’unica parola incalza, e il cuore come neve scioglie e rende ogni speranza vana. |
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Riccardo Bagnato [www.bagnato.it]
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