Modena, 12-09-1997 |
Come potevo aver confuso tutto? Cos’era successo? Dov’ero finito? ooooooooooooooooooL'imboscata Si svegliò sollevandosi dalla marea di lacrime descritte al buio, fra rime accese nel mezzo della notte, mentre le finestre aprivano la gola e orientavano veloci il suo destino, sbattendogli sugli occhi il giorno appena nato “Ecco, ti ho trovato” disse “finalmente!” ooooooooooooooooooooooooChé l'unica citazione è il fuoco Avevan circondato l’alba. Li vide ad uno ad uno dalle persiane del suo sangue, figure strepitose far rumore con le dita, cavalli imbizzarriti come squali tutt’intorno attendendo di stringerlo fra i denti. Corri, corri, corri, fuggi! Si diceva, un profumo popolare sui suoi passi, che svaniva nel falsetto del buon senso. Come un’ombra stava lì, nel suo ennesimo perverso maquillage di stanze avute e perse. S’infilò i vestiti, raggiungendo il corridoio, il suo nome, con la schiuma sulla bocca e su fin verso il tetto, stazionando fra gli applausi e le nuvole. E volò via. Finalmente coi vestiti stropicciati, dopo aver tanto viaggiato, sognato, sai tutto di queste fredde righe che percorri che nel cielo ti guardano partire. Non tornerai mai più, ragazzo, vecchio giocatore. Le tue orme, deboli meraviglie, al pari di quelle isole deserte in mezzo all’universo, nel luogo più caldo nel vento più docile da imbrogliare seguendo un tuo pensiero in cui non sei, seguendo il fiato che ti è rimasto dall’emozione più grande, il ricordo, al pari loro, orme del sole in punta di piedi su quell’acqua fragilità, fondali, cittadini, rivedrai la notte, rivedremo la luce insieme, nascondere nel buio la nudità del giorno. Ma poi discese ancora chiudendo gli occhi, riavvolgendo le ali come piombo caduto e fuso dentro il cuore, nella forma di un sospetto in cui vivi e sciogli e ridi e implori, dall’alto nel silenzio, fissando gli occhi d’una parola. Di corsa. Senza la minima speranza ha aspettato ridiscendere con lui, la sua immagine e somiglianza che sparisse senza dubitare un solo istante senza nulla per le mani senza direzione, ma un solo fragile timore che fa finta, di corsa, questa notte per queste note stanze, nel buio nel sonno col fiato appeso a un sogno custodito nelle borse degl’occhi e il risveglio e il mondo, aspettando l’ultima bestemmia che tacesse i rantoli l’infinita trasmissione l’infamante presunzione della memoria, che non cambia, abitudine né il pelo, tanto meno il vizio, di scoprirsi pesante quanto questo improvvisare. Di corsa. A Metz, a Lisbona, bagnarsi nell’oceano, e poi a Strasburgo, a Stoccarda, Zurigo, Praga, a Budapest, da te, e poi a Venezia. Da Parigi: “Qui, ai giardini di Lussemburgo c’è un sole abbagliante. Il caldo è piacevolmente insostenibile. Là molte belle donne. Starnutisco e mi sembra tutto strano. Mi asciugo. Tantissimi fiori. Tanti che ad ognuno sollevo lo sguardo per vederne l’insieme irraggiungibile. Eppure dalle mie parole si vede solo una discreta ma efficace nebbia padana. Un vento che si muove come una giungla trasparente, ma enorme e potente. Più tardi sarà quel buio che chiamano crepuscolo, e poi quell’altro che chiamano con insistenza notte, e infine l’ultimo, per cui non abbiamo che un nome impronunciabile. Tuo Leonidas.” Una ragazza nel verde vitreo scorre, ruscello non visto, accarezza il sentiero dei passanti in questo parco e nella culla i desideri. E' uscita dal giorno che tormentava fra le dita, intrecciato qualche ricordo, sovrapposto i passi mentre liberavano gli alberi il loro luminoso odore: duchessa indiana, ormai lontana perché lo assedi e lo circondi, col tuo grigio grido che lo cuce al suolo? Astratto pensare, astratto ed infantile, corteggiando a distanza d’ogni suo silenzio il tuo centro che non sai più essere il mio segreto, profumato, avvelenato dalla rarità di un gesto, lingua tisica, traslucido, sforzo postumo a giocare col divino duello fra due piccole creature in un solo piccolo creato. Ragazza per un solo istante, e poi scomparsa dietro una metafore in volo: ricordati almeno tu, di quel momento così francese, angelo dei piaceri perduti, rumore di un’altra abitudine, fiordo in cui il tramonto, mio spleen, è diventato un sogno a cielo aperto. Ora invece sembrava uno squalo fra i globuli del buio, arteria principale lungo un coltello cocciuto e stretto al cuore fra le sue maiuscole perquisizioni quando ferito ferisce, e la sua morte, verso i propri simili corre in contrappunto con l’odore del sangue che lascia: ad ogni barocco fugato che sia trasfigurato abbocco nella valle notturna inseguito e preceduto, spesso preceduto, dal suo crimine. Il solo minuscolo pensare alle stesse cose, domandare se questo scettico sole che se n’è andato brillando coi suoi sì lo lascerà attraversare i suoi reati, i miei vizi senza farci male: ha stretto la mano al dolore poi precoce, sorpresi entrambi da un lampione, sincronizzato il colpo, lui incatenato al passato come un ladro al pensiero del proprio errore - l’unico - tradotto - qui - in prigione e lui da sempre - sembra - in estasi davanti alla mappa della vita puntata al muro come pensieri a quello del cervello pianificando le profondità, l’orrore. Altre volte il suo corpo, che incontra ogni mattina al suo risveglio se ne sta ad abbatter muri del nulla, del pensarlo, così spessi eppure fragili, forse pelvici penetrando, deflorando, uscita porta, scardinando l’ascensore. Si ferma: “Ho fatto bene in strada mi aspettava”. Il silenzio corazzato dei tuoi no, gli occhi di ogni incontro muti come cenere, il ventre incollato alle mie mani, i complimenti per imbarazzarla che non ho, i capelli che cercano carezze, la speranza che sclerotizza per un goccio la ragione. Per un solo dolcissimo distante saper leggere finché a battaglia terminata tra le fiamme e il buio a invadere gli oggetti, un diamante ad imbrunire gli occhi, precisa l’instabile precisione claudicante microbo, effusione, sempre più ridicolo dell’amore per questa vita; precaria, con gli occhi a microscopio sul vetro fra le gambe congiunte, incollate nel bel mezzo a spintoni del tutto, il nulla, ancora strappata ai fondali di questa notte. Passano i fari, passa la luce sfiora le case, passa la pantera passano le iene, passano le prede, passa il tempo, si ferma e si consuma il posto dove non siamo e passa oltre. Un rosario di offerte sorprese a pagare, a pregare la fortuna, per trovare un modo di vivere senza domani, a sbavare qualche parola qualche promessa a se stessi: “mi sono visto che piangevo, mi sono visto di spalle che bestemmiavo, mi sono visto di spalle che correvo, e ho visto il baccano, il buio, infiammare il freddo lenzuolo su cui stiamo, tu ed io Adamo ed Eva da secoli e il loro amore col freno a mano che per l’ansia di perdersi ha avuto nel buio, la certezza di darsi.” Era da molto che passeggiava. Forse da tutta una vita. Lungo i quai non c’era più nessuno, il fiume insisteva, gli alberi erano ancora lì, l’aria entrava nei polmoni, copione di quella solitudine. Le luci del Tempio di St. Paul erano spente, troneggiava la sua sagoma presso il Palazzo Universitario; alcuni barboni spacciati sull’orizzonte della società sognavano, distesi sui loro stessi incubi, sui vetri rotti, oleosa giovinezza che ha perduto la vita. Poco importa. Per la delicatezza con cui ha perso la speranza, pronunciato le parole che non sa, che tolgono la voce, pattinava meravigliosamente, fine come un’alta e giovane demoiselle, per mezzo di qualche gioco ottico prezioso, lontano ed invisibile nelle ombre. Invisibile sotto le sagome. Un amante nascosto dalla fortuna, un sollievo di lacrime che sfilano nascoste anch’esse e poi cresciute a forza di buona educazione e infine un inganno impreciso per ore infinite dagl’occhi alla memoria lungo lo sguardo che il cielo concede all’inverno. Vecchio come un sogno. Un sogno fatto di mille volte che spalmava ogni mattina sul ricordo in cui la notte aveva fatto l’amore, con amore, ti vedeva respirare in mezzo a qualcosa che chiamiamo mondo e sorridere del tempo che passa, semidolce che aggancia in un solo battito nudo e crudo il senso tutto bagnato del clamore che ha vissuto, che vive, e vivere. E i ricordi ora diventano come i vecchi ciò che ne fanno, i vecchi, che attraversano il presente scusandosi di non poter restare troppo a lungo. Brilla l’orgoglio in fondo al mare, e tu squittisci, poi qualche coccola, concedi ai gemiti una loro dignità; la dignità delle poche cose rimaste, e piangi nel vuoto. Ti tuffi ancora più dentro te stessa lungo il filo che Arianna ha lasciato dopo una notte d’amore per mancia fino alle tre, fra me e te e me stesso mi dico: come edera secca aggrappato rimango qui. Con te. Muro oltre il quale non sono arrivato, non ho coperto: ma poi ci sgretoliamo di nuovo in un bacio, al centro il silenzio. Risentiva il fiato al collo, di nuovo, la maschera feroce della verità, l’arroganza d’un pensiero. Di corsa. Di nuovo di corsa: ma sì, arrivo... ma perché proprio io? perché ora? perché di già? arrivo, arrivo, e i ragazzi piangono e le ragazze piangono, ma si sa, è un vizio di stagione. Arrivo, certo che arrivo! Ma lasciatemi salutare Marta, Francesca, Emmanuelle, lasciatemi rivedere i figli che non ho mai avuto… arrivo, per Dio! Arrivo. Come mi piacerebbe ancora, trascinare i miei lamenti fino alla prossima gioia sotto il sole, sì, sì, arrivo... ma non ho forse fatto altro che arrivare? Solo, mi piacerebbe ancora, ancora una volta vedere la Défence, Parigi in ragnatele, il taglio rosa antico di Lisbona, il freddo intorno la cattedrale di Strasburgo, i bagni turchi a volta sotto Pest. Arrivo! Arrivo! E i miei amici, i miei confidenti passeggiando all’alba, pensando, con la mia insonnia a cavallo fra il cielo e un ricordo: varrà il silenzio come saluto? Aprì gli occhi, appoggiò ogni suo pensiero lungo il muro. Forse era l’alba, lentamente che cinge, mette a nudo la notte, una carezza il suo collo del cielo, e sulla strada due figure di doganieri, l’ultimo assassino. Non aver paura - ti dico passeremo senza farci male, ti nasconderò nel cuore. Ma tu non muoverti, saremmo i primi a vedere la fine della guerra, scivoleremo oltre la linea del fuoco danzando diplomaticamente sul sudore versato della paura, del potere del pianto universale scaraventato nel suono dei fucili, delle baionette con cui tu hai detto le cose che non m’hai detto. Non agitarti, ti prego, potrebbero avvertire il rumore, catturare e incriminare le mie lacrime e poi potrebbero sgridarci, ed io finire per sempre fra gli adulti. Vuoi tu… sì, lo voglio. Ora, adesso, o mai più. Go! |
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2001 Riccardo Bagnato [www.bagnato.it]
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