Una conferenza
Modena, 11-08-1995
  “Il termine prediletto da ogni monologo è deficit. Denota alterazioni; incapacità; perdita di memoria, di identità, di linguaggio. Per tutte queste ed altre disfunzioni - un altro termine molto amato - abbiamo parole privative d'ogni sorta: afonia, afasia, afemia, aprassia, amnesia, agnosia, amore, atassia. Una parola per tutto ciò che non possiamo, e che pertanto, per quanto, abbiamo”.

"Si è tenendosi ogni cosa vicino, ogni pensiero"
Entrò seguito da un enorme eccetera
ingarbugliandosi poi,
fra qualche bussola onirica, banale e dei
sintattici capricci d'un dubbio: (o certezza).

“Ricordo”, comincia “il bambino che gioca
e la palla non perdona fra le aiuole”.
Ma prima di capire e riascoltare,
ancor prima che la pausa si riempisse dell'odore
di parole,
piscio o deliquio scaravento a mulinello, prima
ho visto l'orizzonte del suo conato verbiforme,
e invaso dal torpore mi son detto
ascoltiamolo:
il suo basso rilievo,
il suo discorso di peristalsi canora,
emisfero occidentale delle cose,
come un paziente sul tavolo operatorio,
solleticava un sistema nervoso parallelo,
la fantasia che si nutre solamente
dei colori o di alcuni puri movimenti,
si rivolgeva a me ma non a me soltanto.

E mi sfuggo di mano - è un attimo -
in un ripostiglio di sofismi andirivieni,
nello scantinato a far blocco siamese
con qualche sporcizia amorosa,
orgia dolorosa: niente,
del passato o del presente.
A cuccia in quest'indagine involontaria
addomestico i miei pochi sensi infanti
intatti ancora, in tanti oblò:
ritagliati capolavori da ciò che resta,
fulgidi, divaricati pensieri, poltigli d'uomo.

Da quelli punto. Un cannone
come da un tombino il muso un topo
e subito ci ritiriamo come quando
sulla strada un uomo
s'infeltrisce fra le spalle il capo
nel lavaggio a freddo di qualche dubbio capitale.
Io, bipede assillo: Giano di fronte
alla propria parola
veduta appoggiarsi sul lemma
“continuo?”

Così me ne sto. Attendo, abbarbicato
sul mistero d'esser solo
una lettera, io inchiostro, io foglio,
io duetto, io duello, io tutto di due e niente di nessuno
tenuto a mente da un anno circa
fino a qualcuno che dica “cosa pensi?”
al di qua di un'ancor meno attendibile e romantica agonia
non più mia, dove piangere non serve.

Il suo gorgheggio di nebbia ricomincia,
fraseggia in qualche tisica ouverture,
qualche sparatoria di sbadigli,
per la metrica caudiva e claudicante
atonale come sporco lentamente.
Dà spettacolo di un tramonto-cartolina,
o come neve su Modena in boccettina,
lui, il naufrago affezionato sul suo scoglio,
Prometeo inchiodato alla memoria,
cagliato semidio di carne che non muore:
“In un mondo ove sia, virtuale,
bandita arresa e così illegale, la morte,
l'unica possibile ritorsione
sarebbe la tortura;
ché non è vero sia la cella, oggi
garanzia liberale o correttiva
ma l'igienico morire d'ogni virus
redime in verità qualunque colpa,
la più innocente, la più legale.
Così se volessimo veramente
riportare al centro… il soggetto umano,
le sofferenze, le afflizioni, le lotte
i rimorsi del soggetto…
dovremmo rendere una casistica completa
una narrazione.
Solo allora avremmo un CHI
e insieme un COSA -
un paziente in relazione alla propria malattia -
una persona reale.”

Rimango a fissarlo
come nella risacca si fa col mare,
musica dietro labbra
disubbidienti le sue parole
cucite al nulla che va e che viene,
oscuro della mente,
creato che si crea ininterrottamente,
sto a fissarlo in riva al cuore,
fissato ed avvitato agl'occhi
fino ad impararne l'inutile a memoria
ritornare, eterno inizio, vuoto
ripetuto fra i capelli, oggi, domani
di vento semplice, lievito inconsolabile
senza un solo verbo:
senza guardare, allora, di nuovo fuggo e mi nascondo
senza rime addosso, né una conta degli errori,
trascinando la mia corsa in quel corpo grasso
verso casa, a nascondino,
nel giardino dietro me che non sapevo ancora
dove il bambino è la parola.
Ma basta appena indossare,
stretto come il silenzio a morsi
con le sue gengive palpitanti
nel momento e sul collo di un pensiero,
perché sottovoce mi dica finalmente...
macchiato a lutto al largo allora
me ne andrei
“me ne vado e basta”: mi volto,
ma non vedo alcun miracolo
ma un sosia sento
il mio dolore mischiarsi con istinto
con l'intuito, ed altri sosia ancora in coda
pallidi compagni scimmiottare il mio segreto
spacciato all'orizzonte
ancora da raggiungere, àncora straziata in fondo
come straziano le notti i giorni.
Ma sforzandomi le labbra, i denti,
mi lascio, lascio la mano:
fronte e sguardo che si poggia,
che si arrende come coppia di amanti
sul verde di una sera,
nel silenzio dell'ultimo abbandono,
poggio quello che non so, e che non dice,
onirici secoli di parole,
nell'immagine il buon senso,
le sue sfaccettature,
creola affabulazione
della mia immaginazione.

Questo mio enciclopedico soffocarmi addosso
per cadenze imperfette
false e rifuse nelle pieghe e quelle
e in questi strappi quotidiani: quegli eccettera
scoperchiabili ammutinamenti siderali,
in cui il cervello lo è o lo fa,
atoni alla vita, a giorno d'inservibili segreti
ha convertito in un rischio il tempo
simmetrico e sonnambulo di qualche metro,
sopra la testa, fosse un pallone senza fili,
come punto coronato il mio pensiero
il mio sapore intellettuale ancorato alla deriva,
una bonaccia lussuriosa di rancori o più semplici miraggi:
mi ritrovo à nouveau lontano
lungo scivoli d'onde col mare alla gola,
questi tremendi tronchi
rami e fronde, più in alto fronde,
e più in su ancora di fronde fronde,
riverse bianche barche in viaggio, un gabbiano
tra la Grecia Antica e il Medioevo di questo cielo,
vecchie e nuvole, terrificanti collane di perle amare,
ma poi una, amante spaccacuori, luna,
chiara mano di fata porge inclita la testa
rifugiandosi nel nulla dei suoi passi, all'ombra del regno,
troppo stanchi, prossimi a spegnersi.
Io a riva col kalashnikov da notte infilato sulle scelte,
tenuto a distanza e sotto tiro dai cecchini:
da quei nascondigli alla fine delle dita,
non posso più soffrire, ma svanire come per te
dio.
A parte ciò che dovrei fare,
che dire? A forza di guardarlo
questo cielo metaquadrato che fa tempesta,
plaid per farci la pastella,
o soffocarci questo centimetro ideale,
lampadina, sempre e comunque in loop satellitare:
questa e quella, a forza di guardarle
per uso capione mi vengono alla mente.
Per quanto a me e per contro,
in comodato, moroso di cambiare
lo so quanto godo a scrocco fra i copioni,
debitore in questa maratona di pensieri.
Ma non è di là, da quel fumetto cosmico,
capitello in testa, che fa specie, che mi fa male,
bensì da basso, blob fumoso e trasparente
invisibilmente fra il pubblico, all'inguine
che scende e stuzzica bloccandoci
in un largo doloroso come a piedi nudi
sul Cocito, fossimo, su questa bella terra, il mondo.

Seduti ad ascoltare un italiano
nel suo dialetto preferito, la seduzione.
Ma io non voglio essere più amato.

Colonne d'un tempio consumato
a parole, ma di fatto
colonnato che accade e non accade,
imbecilli di marmo o profani,
seduti ad ascoltare, cariatidi, Rodin, a pensare
torsoli dal tempo mascherati a forza di bestemmie,
di "sì, però..." o "comunque" o "vabbé, passiamo ad altro…"
quasi bellezze languide, ma eterne
da San Tommaso fino al dito.
Fra le eco ai cui i profumi non possono rispondere,
i colori, indolenti compagni di passaggio,
l'infinito miasma di parole
corrompendone virtù e furore
tradendo l'ammorbante stasi dell'origine
che non distrae. Ferme. Vergini
di crepe vergini, la cui liscia carne e soda e prepotente
attrarrebbe i morsi. Le cui mani
sprecavano l'amore amando, il cui bacio
carezza l'intangibile sorriso
e il suo no per ora ancora armato.
Ma non è di lassù, nel sottotetto del mistero,
che ho lasciato il bocchettone aperto
antenna, periscopio, a caleidoscopio
i pettegolezzi sui massimi sistemi
sull'amore, uomo di Neanderthal, aperti, no:
è questo slalom tutto occidentale
fra ciò che non ha ancora detto
o che non riuscirà mai a dire,
fra le sedie, dal basso che s'espande
dal pentolone màntico e retorico
il livore delle sue parole,
ombra scivolosa fra il tempo
e il ringhio e il fango a toni acuti
zampe a punta e ritmo in due.
Tra poco, fra non molto si convincerà
fra i rami smembrati,
fra i gioielli della bella Modena intellettuale,
fra i seni obliterati e l'innocenza
col suo verbicidio arlecchino e quella
sensazione irrevocabile per cui
fra noi sdraiati nel sottobosco cardiovascolare
umido e flaccido davanti all'idolo
anch'io, passiflora edera caprifoglio o vite,
Atlante, sosterrò, stilita, lo sguardo,
coi tacchi danzante alla speranza
sulle sue pupille da tono minore
bemolle dell'anima, e chiederò:
“Ma non sentite questo rumore?
che facciamo stramazzati a terra noi Italiani, che strazio!
A ginocchio da cent'anni nelle maglie
della storia che peschiamo a memoria
come al luna-park i pesciolini rossi, la classe media,
linfonodi d'un viziato costume e sociale,
ci crediamo leoni e siamo iene, avvoltoi
invece d'aquile, e percorriamo stagnando
nei latifondi morali delle solite famiglie
non potendo altrimenti ancora,
nella nostra infanzia patologica del niente
poiché a restare nella palude, lo sappiamo,
ci siamo presi abitudini strane e certe
e un'indecente malattia morale:
che in fondo sappiamo non può esserci in Italia
Cesare senza Pompeo, peccato senza gloria...”
Così si secca al sole lo stivale dei maiali,
qualcuno si rifugia nei sotterranei di "quello è pazzo"
pedinando il mondo, per diventare dentro nessuno,
o dirsi fra loro quasi fossero superflue
anonime anestesie in cerca d'insostituibilità…
e allora, cazzo, ricomincio "Tu, Italia, mi alzo
come dal letto in piena di pensieri stormati questa notte
pesando la testa col sonno non trovato, e sto
con la notte nel cielo in questa domanda:
che tristezza essere stato
insieme a te questi quarant'anni e doverci stare avviluppato
dentro ad ascoltare, strato dopo strato,
i mugugni, i tuoi tiranni e una borghesia paonazza
fra Monarchia e Federalismo
e il miagolare di un Papato e un'aristocrazia mancata.
Se penso a te m'accorgo
d'essere altrove e in mille posti
davanti allo specchio a guardarmi
certe notti sono un vizio anch'io
che non ho mai smesso, a cui do del tu
di petto o di stomaco cela depend des fois:
un'isola nel mezzo dei principii
su cui sto come un vulcano
vulva o ano
partorisco merda.
Ma anche tu, non potendo scodellare di proprio
Cibèle ignuda, fai cogl'amanti tuoi rosari,
gargarismi con le tue promesse
mugugnando le illusioni femminili,
nel manicomio dei tuoi contegni, tanti pazzi
bei consigli ermafroditi.

Ma fino a che punto?"

Ich, Attys, wenn die Wildheit dieses Augenblicks
in mir mit ihrem Schritt,
bei Tag, bei Nacht, im Wachen, im Traum
umsonst tritt. Wenn ich
aus meinen Augen, liebevoll,
die Tränen winken sehe;
wenn sie das Ziel bis jetzt und zu mir
zu kurz nehmen,
vorbei an manchem lieben Ort,
bis zu dem üblichen Platz,
um mir den Gedankenschatz
zu zeigen - eine Leiche.
Ein Kind ohne meinen Mut,
mit meinem sinnlichen Nichts
und stockblinden Lippen
aus meiner moralischen Blindheit geboren,
vom Schicksal, wegen meiner stillen Schuld geraubt.
Einen kindischen Brief nicht nur zu schreiben,
sondern zu denken
wäre mir vielleicht gegeben,
von dessen Worten und Schweigen mir auch nicht eines
bekannt ist: eine Sprache
in welcher die stummen Lügen sprechen können.
Ja, es kann auch das bestimmte Verstellen
eines abwesenden Gegestandes sein,
dem die unbegreifliche Auserwählung
zuteil wird, mit ausgiebigem Gift:
so wie ich meinem Leben den Auftrag gegeben hatte
Ratten und schändliche Spinnen zu streuen
weil ich durch deines Namens Klauen
auf Tausende unpräziser Arten,
unter dem süßlich-scharfen Gerucht des Giftes
geschrieben bin,
treue Sünde, treuloser Sinn.

Lingua intrecciata come dopo il volo,
caduta da Babele sui silenzi le rovine:
sotto il peso di montagne,
fra il pallore serale ed anche nelle mie notti bianche.
Le mie notti in bianco!
E revoco ogni esplicito coinvolgimento,
irrevocabile è il vocabolo che fa paura
e nessuno si scandalizza più, sono sicuri: è povero.

L'eco narcisista delle ultime parole
che si vuole affondino costringendo la realtà
nella stesura dei suoi pensieri, erosi, erode
a distanza d'offesa con la punta del suo sangue,
il diluvio del giorno,
e tracciando trascina nelle segrete vite
la lingua a riunione fra le dita.
Questa cosa che prende d'un viso la sofferenza,
che prende d'ogni vergogna lo spunto,
inquadrandosi dall'altro
è nella notte come una lama
avvolta in quella muffa notturna e muta
col livido d'ogni mia colpa e il suo sudore
che d'improvviso si sguaina e si affonda sottovoce
nel buio di un'azione, spegnendone la luce.
Lasciassimo crescere fra le gambe
almeno un fermentato effemminato
bisogno di tempo,
riuscissimo ad ascoltare nel frastuono
d'un qualsiasi sterminato istante
il suono di ognuno e di ognuno
il proprio muscolo sterculeo deflorare ogni progetto
e sprogettarsi finalmente da tutte queste cortesie.

Ora, sminteoforme corpo
ora, inabitabile olimpo
dolcissimo penitenziario dei miei sogni,
questa conferenza lunga e inadeguata,
sopportata verità nei suoi momenti più fotogenici mi guardi:
le sue guance tonde, amaca che dondola nel tempo
versa alle menzogne sparse come semina
le sue parole da criceto d'una volta,
giorno dopo giorno
facendo scorta, per un solo inverno alcuni sentimenti
giorno dopo giorno,
facendomi carta o porta scardinata
dal tempo sottovuoto, io
con le mani come guanti nei cassetti aperti al buio
mentre la finestra dei ricordi
goccia dopo goccia,
scusasse il lamento della pioggia di domani,
oggi di me parlando è caduta e cadono
giorno dopo giorno nell'errore nuovamente
e m'accorgo appena dello schianto. Frantumata.

Si sgola la chiusa delle amanti, e te lo dico,
anima mia, animalento, doccia scozzese
ma è troppo facile ricordare le nebbie di Venezia
le solitudini sul ponte, l'Arsenale, le piogge
Chat Baker e il Carnevale:
geografie orgogliose di un amore
quasi fossero
d'una giurisprudenza disordinata
la risacca dei reati, mentre
su quelli punta il mondo e traffica
il numero dei giorni.
Ancora sottovoce come larva
la memoria s'alza come il mare
nei momenti suoi più crudi e forti
momento in cui
baratta con gli scogli.
Volendo ragione dei baci che ti ho dati
coi suoi polmoni di flanella
la ragione stessa sbava, svirgola, sbadiglia
consumandosi fra i rumori e
il disordine del mio culo;
tu, mio spleen, conchiglia che gioca alla storia,
a fare il mare per intero
abbi pietà per un solo istante
fra i legni della mia impietosa zattera
adolescienziale, certo, sbircia il tuo silenzio
dove fra cent'anni come dentro
sfigurandomi d'un secchio d'acido presente
gettato sul mio trucco, il viso, il male
ci sarà il tempo dei nostri errori e per l'oceano portoghese,
gli amanti che fanno l'amore
e che a Strasburgo diventano Penelope.

Tout simplement tu ne reviendras plus
vieux amant assoupi sur ta destinée,
tanière où tout m'a toujours semblé
gâter mon sommeil avec ses mains nues
pendant des obscurités entières,
pavés des jours, plafonds des rêves…
lorsque un conseil d'être heureux
semble sortir des choses…
ventre lointain, tombeau judicieux et posé
où personne ne me cherche
et moi non plus… sottovoce.
Or, je vais à travers en disant tes mots
..en te prononçant pour passer le temps
..en parlant des nuages plus bas
ch'io vedo... io vado, me ne vado, buona fortuna,
fra me, me pensando pianissimo
sfiorando a voltarmi solo me stesso.

Come vedi non ho scordato nulla
di questo bilancio a strascico fra le righe:
né tua figlia, né quanto poco importa
per la vergogna che mi porta
scrivere della morte, sebbene onirica
e sciattamente comoda.
Soltanto ti ricordo
come neve sciogliendoti e scegliendomi
farmi mare, e dire: “Ti voglio proteggere,
ti proteggerò da tutto ciò ch'è fuori,
ma non dal giorno, né dal pericolo del sole”.
In questo breve addio ed invisibile,
aggrovigliato intorno a un fastidioso tu sais
in te mi son fatto e rifatto le ali,
angelo-bombardiere
mélange parfait
milonga nel cielo,
con tutte le ragioni e poi
tutti i torti, storti e contorti,
in eclissi blu d'amore,
che non sapevo di avere, e i morti.

...da quando
...io
...sono diventato io
...e tu
...sei sempre tu
...dal giorno in cui avevo ventitré anni
la pelle dolce e sui palmi delle mani
la tua linea della vita, avevo
un verso per la mia da allora in fuga,
che m'ha sempre preceduto
domandandomi di te sussurrando la penombra
di una voce: “Lazzaro, sei tu?”.

Col tempo tutto se ne va,
le persone adorate, aggrappate ai nostri colli,
alle nostre gole, graffiate,
le persone amate con altri
facendo curve strane negli sguardi
se ne vanno a fare i loro affari
col tempo inadeguato del presente
per chiamarli amari, e basta.
...da quando
...io
...sono diventato io
...e tu
...sei sempre tu.

E se ora
le lacrime di qualche acquazzone
sbattono contro il vetro
per avvertirmi del mio furto, della mia scoperta
oramai nascosta dai fondali bassi
come un cadavere sgranando
squarciando la vita
il passato, l'esistenza o l'estinzione, mi fissa
su quel confine tautologico dove sono finalmente,
non basterà attraversarlo,
ma qualcuno che insegua il nome,
come andrà a finire, i suoi toni
bassi e sovrani, come lenti
chiassosi insulti a proposito delle malattie presenti:
questi distratti citati
citanti, eccitanti giudici celati in cattività
puntati a guinzaglio nella lingua
facendo eco da ogni parte
che mordono per un pezzo di pane i propri nomi,
gli stessi delle banconote di cui mi servo
per un verso o per l'altro
hanno ragione, hanno avuto ragione: io no, e allora?

E' stato inutile restare. Che pena doverti amare.
Cercherò le più cattive parole
per dirti "che pena doverti amare"…

...passando per la stanza dove ha giocato
custodito dalla sua pigrizia il bambino conferenziere
fuori nella sera è uscito,
se n'é andato, ha chiuso le ciglia: spiovigginava,
sfiorava il buio sfiancandone le labbra sembrava dire
che non vuole morire neanche lui, stanotte, mi hanno detto.
Parlava di un poeta se ben ricordo,
o forse di un Paese, poco importa,
mi riguardava da vicino credo, ma ora.

Turbino nel buio, verso casa da solo
prima che un'ottima ragione per non piangere
mi venga a prendere.
Incontrerò chi mi dirà così, solo così: muori.
Ma non sarai tu, egoista e capricciosa mandante,
finalmente.

Non ti amo più.

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