Autoritratto | ||
Modena, 23-09-1998 |
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In cui Verlaine non abbia più nulla da dire t’insegnerò a giocare a monopoli, sotto il sole: promesso. A esercitare dietro il fumo le parole, i denti assordanti a questo gioco singolare, e tu per qualche tempo non potrai capirlo, se non quando sentirai questo odore salutare di pelle o zibellino, scongelarsi nel microonde di una rima fra i semplici e mortali cambiamenti apolidi di un cuore incontinente. Potrai portare fino a casa allora, vituperando l’epoca racchiusa da un confine tautologico e selvatico, la tua pelle da gazzella, e nel rumore delle scaramucce barbare, fino alla linea dell’amore sulla mano che ti hanno preso, a sapere come funziona, quando funziona, veramente il cuore. “Ma che amici!”, ti dirò quando perderai al gioco, e se a questo gioco non saprai rispondere ti dico, non farmi ridere, non sai più chi furono i tuoi schiavi! Da un pezzo ti lasci lusingare da un ducato estense, da una provincia denuclearizzata, imperiale delle assurdità mafiose all’orzata, e per giunta famigliare. Poi ripensando. Eggià, la tua mano enigmatica che ha scritto nel proemio delle mie incertezze, che scrive all’alba della stessa era, ogni giorno la stessa parola ancora, che vi penetra e che trascina come sangue privato glissando sul mattino la mia bocca e la pronuncia in un sorriso. Come mano sensata, materna, proprio come quella dell’ultima vacanza, strattonando la mie lacrime mortali, i miei larghi occhi davanti a quelle tristezze obbligatorie mi conduci, mi accompagni, in quei sogni fastidiosi dove il cuore diventa un palazzo immenso, ed io Atlante, medioevale Maestro di un raro trittico, cui è rimasto da dire l’unico mistero, ho trovato e visto fra le pagine proibite il mio nome diventare doloroso, come scavato nel marmo rosa di un abbaglio ai cui piedi, un giorno volentieri, dormirai nel freddo del tuo egoista pianto imbrogliato dal pallore decomposto di una notte scesa come neve presto sciolta nello schianto. Quando allora il cielo basso e lurido e pesante, come un coperchio esploso verserà sul mondo un giorno ancor più nero delle notti, quando la terra fra i capelli e nelle unghie lentamente scovernno i vermi la ragione dei tuoi errori e dei tuoi sbagli, quando l’unico riparo invernale sarà il luogo in cui gettare uno a uno i rancori, i fallimenti, gli amori persi, le segrete lussurie della tua legge e il velenoso e reo progetto dei tuoi anni, quando la solitudine, una sera, defilirà come uno squalo nella pianura sul suolo soffice e terrestre ridotto ad una zattera di addii e di pentimenti. Quando il passo sottile il miracolo di essermi scordato il gesto vergineo di una bocca svelerà il segreto vergognoso nel sacro biancore presente e afoso sotto il suono il fango, quando l'altra solitudine mostrerà gli artigli, la parola disperata agire nell'ultimo momento, la violenza lontana di un passato sorriderti e scappare, quando allora lascerà pietosamente il porto, la morsa il morso degli affetti, e nel bel mezzo dell'oceano il vuoto spingerà la zattera maestosa al largo, allora ti sveglierai con la testa insanguinata ferita, appoggiata, ancorata sullo scoglio, l’immagine evitata finalmente, potendo volteggiare forse nella memoria delle onde sull'ultima miseria sotto un cielo stranamente terso, e là sarò, sarà, sarai, la tua tomba, amabile pestilenza sarò il testimone della tua forza putrida e naturale, per ciò che non ho mai fatto, io che non volevo fare, intossicato all’ombra del tuo cadavere, io che non ho osato amare, io che non ti ho mai portato fiori, e tu che lo sapevi. E pertanto mentre un saluto romano sagomerà, di un vero imperatore un uomo nella notte, sotto quel brutto anatroccolo monumentale, lascerò perdere i Parti, di questo impero che è la vita, e più lontano all’estremo opposto un lapsus in balìa delle mie dita ripeterò le regole ignorate. Le forme da gigante che impediscono i tuoi gesti, tu, Icaro schiantato al suolo su questo secolo sicuro, apocalittico ed eterno, di bla bla appesi alle pereti del cervello, la tua impacciata reverenza conferma solamente l'alto patrocinio che han concesso a questi dislessici e malvagi untori che avranno già graffiato il collo di questa civiltà di ciò che tu sei stato, ma al sottoscritto non impediranno, alzando la cresta, storcendo il gesto, infilandosi le mani in tasca, d'essere tuo Augusto o Marc’Aurelio fino a confondere il tempo con la storia... ...è partita e non tornerà mai più, “dov’è la mamma?” mi chiedi “mi spiace”, ti rispondo: pianto svogliato labirintico e morale, scansato silenzioso, di già non sei che diventato un'ulteriore parola d’oro, con cui ho pagato i tradimenti, mia unica riserva aurea che ricordo. La tua vita fu una tale perfetta ragione mi verrà da dire, da pensare, che non son bastati i secoli, né i trattati, né le guerre, e pertanto lottare per non morire, per spiegarla, come di una bandiera il suo significato al vento, farò tutto ciò che ci obbliga ad andare senza poter partire; ma indica, con vile precisione ed oceanica che sei qui, tu, ed io altrimenti non voglio, dico, non voglio, sotto la statua superba lentamente impallidire, non voglio l’onore delle armi, vedere i vermi gemere fra i vermi. Non voglio sotto il sole brandire la spada liquida sulla ferita ch’esala il puzzo dell'ultimo suo no pietrificato. Così ti saluto non perché sappia dove tu sia stato, né l’indirizzo della soluzione: ma cercando altrove e di mattina finalmente l’orologio umano e l'ultima fatica, colgo l’occasione. Tuo sinceramente, amato. |
Copyright (C) 2001 Riccardo Bagnato [www.bagnato.it]
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