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Talvolta mi pare si acutizzi col tempo e si precisi, per mezzo degli impegni che un uomo è costretto a ottemperare crescendo, un discorso. Un dialogo, un ambiente retorico cui è negata qualsiasi forma di stabilità alternativa a quella raggiunta, o magari il destino stesso. Un discorso che in qualche metafora o luogo della realtà, attraversati senza saperlo, riaffiora, acquista consistenza e s'increspa alla luce delle parole.

Risulta curioso allora come il non avere tempo per sé coincida con l'esigenza di occuparsi di cose che mettono in rapporto se stessi col consorzio umano.
Essendo in tanti e tutti desiderosi di stabilità, di raggiungere un certo equilibrio; possedendo dentro di sé quel panorama non più o non solo ideale per cui tutto è possibile, ma dovendo invece fare i conti, mensili, settimanali, quotidiani con la forza degli altri, e non solo con quella delle idee che ci facciamo del mondo, ma col mondo stesso; in quanto esseri mortali, analogici e faziosi, in attrito con un universo apparentemente senza limiti, per certi versi amorale, dobbiamo confrontarci di volta in volta coi nostri simili, come corpi che tendono a cadere fino alla superficie piana che non permette nessun'altra tensione gravitazionale. Così siamo noi, fino alla superficie dura della vita nostro malgrado. E il tutto a garanzia del buon funzionamento della società, cui siamo riconoscenti nella misura in cui essa ci riconosce.

Ogni sera, quasi ogni sera, ci infiliamo tutti nel letto prima o poi. Al mattino, quasi ogni mattino, ci alziamo e tentiamo di incastonare impegni, pensieri, ambizioni, tollerando quasi per miracolo l'incidenza del giorno che ci consuma, fra i desideri e gli affanni.

Così è. E la precisione è diventata un'abitudine. Di quelle dure a morire per intenderci. Capitalizziamo, implementiamo, ottimizziamo, realizziamo sinergie qua e là, nella speranza di stare fermi. Esattamente dove sono gli altri. O al massimo qualche millimetro più in là. Questo appena ci basterebbe.

Chiunque decida, infatti, per qualche vezzo culturale o peggio per questioni puramente morali, di rinnovare drasticamente le proprie abitudini, rimarrebbe sorpreso nel non ritrovarsi più dov'era il giorno prima e intorno, il vuoto. Chiunque decida di sfidare i tempi, di spostare con la sola forza delle proprie convinzioni il fascio di luce che ogni giorno illumina questa o quella moda, questo o quell'argomento; chiunque pensi per un solo istante di smuovere l'attenzione cui il consorzio umano si dedica con tanto savoir faire, è destinato così facendo a sostenere per il resto dell'esistenza il peso dell'umano. Dio ce ne scampi.

Chi poi viceversa volesse farlo senza nascondersi dietro un obiettivo etico o culturale, bensì in virtù di un accentuato edonismo o per l'innata attitudine teatrale, non rischierebbe certamente di meno. La sola differenza sarebbe che in questo caso la propria solitudine diverrebbe pubblica. Un'astrazione moderna - il pubblico - una specie di fluttuante qualchecosa e instabile, al pari di quei compagni che dapprima biasimano il Vecchio Marinaio perché pensano abbia ucciso l'albatros, poi lo lodano per averlo fatto, e infine, durante la bonaccia, gli si ritorcono contro appendonogli il volatile al collo. Coleridge aveva visto bene, e li ha lasciati morire.

Chi infine desiderasse applicarsi in entrambi i modi, seguirebbe forse una sorta di afona dittatura dei sensi, paragonabile oggigiorno non più a una direzione, ma più banalmente a una specie di linea Maginot su cui chiacchierando si afferrano le occasioni che elergisce la fortuna, evitando i colpi dei mortai svevesi o la mira delle sentinelle alsaziane.

In questo periodo della vita mi piace pensare a ognuno, a ogni luogo, visitato e amato, ad ogni mio nascondiglio morale, come ad una parte più o meno grande di un discorso che ho cominciato e che non ho mai concluso e che tuttavia non potrà facilmente essere letto per intero. Come se mi fossi alzato sulla montagna più alta del mondo, e avessi la forza di guardare il sole e la luna alternarsi nel cielo ininterrottamente, nutrendomi soltanto dei pensieri e dei ricordi che i pensieri e ricordi ricamano intorno alla solitudine.

Ogni sera, facendo tesoro di tutto ciò, ci mettiamo a letto. Ma il fumo della battaglia non si arresta. E accompagna col suo indaffarato e inequivocabile comando noi e i nostri simili ai bordi di un nuovo giorno. La calma poi, con cui talvolta riusciamo a percepire tutto ciò, quella sensazione in cui viceversa ci sentiamo liberi e quindi soli, è alla base di una fra le strade che nei secoli si è prescelta come alternativa e che si chiama di volta in volta arte, poesia, letteratura, impronte lasciate fra i ricordi per rintracciare il filo di Arianna che ci riporti fino alla paternità perduta nella tomba della nostra prima giovinezza.

Una calma tuttavia in contrasto col ritmo della vita moderna e che si contrappone al bisogno incessante di risposte, di giudizi, all'abbrutimento di ogni errore umano, come la maestria leonina si contrappone alla capacità camaleontica per l'ultimo e preciso attacco di chi ai duelli preferisce l'agguato.

Un tempo - il nostro - in cui le passioni si susseguono come didascalie ingiuriose di una corrente sociologica, o viceversa fenomenologie di qualcosa che si ripete illudendosi si tratti di un nuovo spirito a venire, a cui si prestano gli antropologi ad armamento leggero per raccogliervi fra le incidenze più sensuali un motivo, un articolo, un pensiero, e trascinarlo per qualche centinaio di pagine mai pubblicate o da pubblicare. In altre parole da rendere pubblico e non popolare. A cui ci arrendiamo noi stessi di tanto in tanto, che dell'amore seguiamo la parte più instabile, arrischiandoci in bilico fra il presente e l'eternità che non ci è concessa. E pertanto visibile. E siamo da capo.
Un tempo in cui, da un lato ci perplime il facile affastellarsi sull'orizzonte piatto, dove tutto sembra accessibile e permesso, idee innovative, guadagni immediati, posizioni di riguardo per noi o i nostri ininterrotti edonistici assalti; e dall'altro l'esigenza di non abbandonarci alle abitudini sociali su cui troppo spesso alcuni come noi, non noi, o non ancora, hanno costruito il proprio equilibrio. Per essere in un doppio clic vecchi senza essere adulti.

Perché è forse questo l'elemento che non facilita affatto il mestiere di vivere, per quanto astratto, di una sua concretezza matematica ancorché si parli di società, di vivere civile: l'equilibrio. Ciò che serve per l'appunto sulla linea Maginot di poc'anzi. Di sempre.

Cosa sono infatti i soldi, il lavoro, la posizione sociale se non il frutto di una resa cui ci abbandoniamo per rintracciarvi, una volta guadagnati, ottenuto o conquistata, il senso di un equilibrio raggiunto? La certezza dei nostri movimenti? Il limite delle nostre azioni? L'orizzonte di attesa cui possiamo fare riferimento senza ferirci oltremodo?
In fondo non è forse vero, che il risultato più importante di tutto questo stia nel riconoscimento sociale che ne deriva? Equilibrio che in questo senso viene confezionato dalla società e che ha a che vedere con la quantità e non più con la qualità (come del resto tutti i fenomeni sociali che allarmano la brava gente in preda al cinismo dei numeri). Ma per cui abbiamo sentito da subito l'esigenza d'inventare una parola d'ordine, oggi come non mai sulla bocca di tutti e per questo sospetta di vanità suprema: progetto.


Ma quale reale progetto sarà mai possibile, se per mantenere o perdere l'equilibrio basta così poco? Quale geometria inconsolabile sarà possibile tracciare fra gli uomini che hanno perduto il gusto della vita. E c'è da farsi una qualche meraviglia, se in fondo abbiamo confuso la passione e l'amore, il progresso con la progettazione di un equilibrio sociale. Un calcolato meccanismo di autodifesa, degno della più banale fuga pànica davanti al salto che il cavaliere e il proprio cavallo non hanno osato fare.

E quante volte abbiamo evitato il confronto con noi stessi, o con le nostre debolezze, sperando di poterle nascondere in virtù di un gioco di squadra improbabile? O più precisamente, chiedendo alle convenzioni sociali, conquistate con l'orgoglio dei vincitori, un nascondiglio: un patto di ferro con l'oscurità cui abbiamo concesso asilo politico nell'animo.

E oggi? Tanta desolazione e pertanto una ricchezza infinita. E questa ricchezza non sta certo nelle cose, ma fra di loro. Sta in ciò che le accomuna. Sta persino in ciò che le differenzia come invece ci si ostina a negare. In entrambi, e non potrebbe essere altrimenti. Sta, in conclusione, in ciò che vi si trova a mezza via, nella capacità di individuare le azioni delle cose e non le cose in sé. Di costruire scenari attendibili entro i quali gli oggetti si spostano; per questo risulta massimamente necessaria una conoscenza specifica, che sappia delineare i confini entro cui si muovono le cose. In altri termini abbisogniamo di un orientamento capace, e una conoscenza umana profonda, correndo però il rischio di cadere nello specialismo ottuso di malerbiana memoria.

E per farlo è necessario avere una visione delle cose e soprattutto dei loro movimenti, delle dinamiche importanti, compreso un orientamento preciso, per cui ciò che ci viene richiesto oggigiorno è proprio la capacità di disegnare scenografie plausibili, creare verità dissimulando le menzogne. E per questo veniamo addirittura remunerati, gratificati di allori o sbattuti via.

L'orientamento, l'equilibrio sulla base del quale riusciamo a pensare a noi stessi, a noi stessi in rapporto con gli altri, diventa imprescindibile. Quello che altrimenti chiameremo forma editoriale di un prodotto, un'idea, una direzione, il senso; onde evitare di perderci nel mare magnum del possibile, scimmiottando sulla via di fuga i peggiori italiani cui Fenoglio ha fatto il verso in tante sue opere.

Una conoscenza umana profonda è irrinunciabile. Capace di proiettare le cose nello spazio e nel tempo, per uno spazio e un tempo possibili. Ma reali?
La posizione sociale è questo. Il posizionamento di noi stessi fra le cose in continuo mutamento e pertanto immobili. E se ha ragione chi ha definito la cultura paragonandola al clima di un paesaggio; se per cultura intendiamo l'insieme delle leggi, dei costumi e delle abitudini che ci siamo costruiti; semmai raggiungere un equilibrio equivale ad individuare un percorso all'interno del paesaggio, e poter camminare diritti come esseri umani e non piegati o a carponi come animali, schivando i colpi dei mortai, ma non le carezze del vento. Se in conclusione veniamo ricompensati per aver capito come va il mondo e questa conoscenza del mondo sta alla base del nostro potere contrattuale con gli altri esseri umani, del lavoro intellettuale dell'artista e del potere di un'opera, sembrerebbe del tutto normale il bisogno di un progetto riconoscibile, di un percorso che garantisca e attesti si è veramente capito come vanno le cose... non le cose in sé quindi, ma "come vanno". E dove e perché e fino a che punto, possibilmente, approssimativamente per giunta.

Rinnovare una tale abitudine culturale allora, è come sfidare le pallottole in piena avanzata; balenare fuori della trincea e guardare in faccia alla società; illudersi che in quel momento essa smetta per incanto di essere sé stessa, così come noi, così facendo smettiamo di essere noi stessi. Solo noi stessi.

 

Copyright (C) 2001 Riccardo Bagnato [www.bagnato.it]
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