Non resta nulla, né l’ultima parola  
Milano, 05-02-2002 per Leo
 
 

Ascolta,
ascolta,
nel silenzio della notte c’è un silenzio
che immobilizza il secolo,
che mette il cuore a nudo,
fra il cibo mestruale che ne approfitta
della nostra prospera e che prospera
maledetta chance.
Una sincope teatrale,
una crisi di nervi fra le lenzuola.
Come sabbia che si muove sulla spiaggia,
come il castello dei sogni di una vita,
come consigli fra le dita,
tirando la coperta,
prima di svegliarsi
a piedi nudi
in ufficio.
Di nuovo in ufficio.

Ma quando tornerai questa volta,
nella tua scatola domestica,
quando aprirai la porta del cervello,
se nel tuo letto ci troverai qualcuno,
se ci trovi qualcuno sotto le lenzuola,
guardala negli occhi, puoi farcela
e tirale una sberla!
Urla! Grida! Mentre si dimena affonda
nel fango del suo corpo,
nel liquido di un complimento oggetto,
Già, non lo sapevi?
Non lo hai sempre saputo in fondo?
Per ricominciare
bisogna morire,
per resuscitare
bisogna finire.
E allora svegliala dal suo senso di colpa!
Dalla sua morte immaginaria!
Dalla tua vita irreale!

Ma in fondo è molto meglio che non sappia nulla.
Di te, che trascini i giorni,
che hai diritto alla miseria delle parole,
delle scuse, dei progetti, della carriera.
Basterà allora andarsene lontano,
per un po’, sulla spiaggia, sotto il sole,
a fare un castello sotto l’ombrellone,
lungo il delta nel week-end,
con tuo figlio al guinzaglio
lasciando a casa pantofole, inconvenienti,
e il resto
sul tavolo in cucina,
fra qualche interrogatorio coniugale,
archiviato dalla memoria,
nella prefettura dei sogni.

Ma guardala la gente,
la gente, sì, la gente!
Ascolta il suo sermone quotidiano,
rimbalzare nel cranio bipede del nulla,
un funerale che abbiamo il lusso
di perdere, riformare, perdere e ritornare
nel mattino immenso, fino alla fine,
incravattati per il collo sull’abisso.

E se alla sera è di nuovo tua moglie che è là,
potrai dirle “Dì, non ti vergogni?
Pensi che non sappia come andrà a finire?
Dì, non ti vergogni che ti debba guardare?
Col culo al vento? Camerata miseria, camerata destino?
E il tuo orgoglio, dì, non si vergogna?”
Infamante asso nella manica
di un calcolo numerico e corrente.
Allora spegni il cervello, arresta il sistema,
o sarà lui ad arrestarti, e riavvia,
riavvia il sistema e vedrai che tutto tornerà come prima.
La vita? C'est la vie, n'est-ce pas?.

Ah! Cittadina emancipata,
quando avrai rotto la faccia ai miei antenati,
quando avremo trovato un posto per i figli,
sulla terra masticata e riconvertita,
dove Dio si aggira fra i massacri tutto solo,
dopo i massacri,
dopo l’ennesimo pianeta consumato,
arriveremo noi, vestiti di nuove uniformi,
srotolando sotto il sole
i nostri ideali senza piedi,
buoni per una rimpatriata fra vecchi amici.

Dì, non ti vergogni? Nel tuo esercizio addominale?

Ma i miei pensieri sono di un altro pianeta, già,
e alla fine dei conti, cosa importa?
Alla fine c’è sempre un letto “Lo conosci?”
Un parcheggio “Vieni, mon amour…”
E poi. Come alla roulette,
l’onore, il potere, la pubblicità nella gola,
e la gola che porta dritto all’inferno,
dove Dio mette gli occhiali da sole
per evitare gli ammiratori.
Qui, all’inferno, miriamo con la precisione della paura.
Mira! Mira! Se la roulette avesse un solo numero
ci farebbero scommettere comunque.
Ma li capisco, i giocatori: per non farselo mettere,
mettono, dismettono, rimettono, scommettono,
il buon senso, i pianti sommessi, la disperazione,
l’indifferenza, l’irreversibile, l’inconfutabile nulla,
fra i seni occupati, i ventri vacanti,
le speranze viziate, e tutto ciò che gli rimane in tasca,
fra i negativi dei propri rancori mai sviluppati,
e le foto di famiglia
mai avute.

Noi invece!
E i nostri strumenti,
a fare il ménage nella testa della gente,
e la rivoluzione… ah... la rivoluzione!
Parliamone: vi piacciono le rivoluzioni, eh?
Ve ne servite, ve ne siete sempre serviti della rivoluzione!
Vi diverte, n’est-ca pas? Prima di interessarvi.
Vi lascia quel non so ché nella bocca,
riordina la coscienza, giustifica gli errori.
E poco importa se
uccide.
Ma quando una rivoluzione diventa interessante,
vuol dire che se ne prepara un’altra,
e quando sparisce nella confusione della strada,
e la coda si disperde,
allora sarete capaci
di rimanere debout su quanto vi resta sotto i piedi,
a spiegare ai vostri figli
tutto quello che non avete capito?
Ma finirete per piegarvi anche voi,
sotto i manganelli della pigrizia,
concedendo alle metafore che vi hanno preso la mano
quella di vostra figlia. Come gli altri.
E allora?

Non votate, non parlate, non cagate più!
A cosa vi potrà mai servire?
a rendervi felici? Ad amare?
Una coppia, Dio in un dramma,
quando incontro la donna, io
mi sposto sul marciapiede opposto: e apro il fuoco!

Allora vedrai che non c’è più niente,
niente da fare, sublime, maledetto, minaccioso niente.
E quando avrai passato il muro dei muri,
rubato nei negozi che ribollono come sotto un coperchio
fino alla vetrina più vicina al tuo passare per caso
e uno starnuto, o qualche titolo di studio ti passerà di fianco,
allora avrai fatto di un sentimento un’idea… Bravo’!
110 e lode, dignità di stampa,
una carriera da barometro accademico.

Queste mani buone per niente o per le seghe,
nel silenzio della sabbia dentro i sogni, sotto il sole,
di questi tempi non hanno più niente da fare e la marea,
che rimonta come rincorrono le puttane la giovinezza,
come gli incubi la tua giornata,
col sorriso a quattro zampe ai tuoi piedi è già arrivata:
bagna dolcemente fino al giorno dopo la memoria.
Rue des Tes Yeux, fino a qualche giornale e un cappuccino:
sei la colonna centrale, l’elzeviro di un assassino verboso,
carattere deciso, corpo diciassette, il titolo sparato.
Spara, spara! Se i morti si svegliassero, eh?

Non sposarti, non votare, non cantar vittoria!
Arrangiati con quello che ti resta fra le aiuole del corpo
e la certezza di essere al mondo.
Dormi, eiacula, resta immobile… mi muoverò io questa volta
verso l’abisso del possibile,
col sorriso bastardo che non hai mai capito,
che percorre la pelle fino alla tua scatola cranica.

Vivi, crepa, soprattutto sotto il sole.
La gente non ricorderà nemmeno il tuo nome!
La gente l’avrà trascinato in qualche inutile espressione,
in mezzo a un sorriso fra le lacrime,
dall’organo principale fino a qualche orifizio
che non si dilata più.
Nella serenità a bassa voce
davanti al palcoscenico della realtà,
come una marcia, fra i soldati e i tamburi, à la guerre!,
“Avanti! Avanti!” fate spazio alla tristezza!

Andare verso l’west della memoria, go west young man
go west, tanto non sei che un’idea che muore.
E corri, corri,
fino a quando t’incontrerai e ritroverai,
quando avrai oltrepassato tutto e al di là di niente,
non troverai più niente, davanti alle vetrine del giorno,
solo decine di organismi in persona
che s’alzano a un’ora precisa
per guadagnarsi il diritto
di ritornare in prigione la sera.
E se è tua moglie che è là?
Vattene, non ti voltare, divorzia,
perché il disordine è la vera pace,
è l’ordine meno il potere,
un’occasione quasi perfetta.

Sono il male, voi dite, è vero,
la sola differenza fra me e voi però,
è che di me, se ne infischia il codice civile,
di voi invece, beh, a voi bastano i giornali!
Così, fra mille anni di voi
non resterà più nulla,
sarà tutto nostro… e… a lei, cosa vuoi che dica?
“Tranquilla, sii serena” afferra il tuo bambino,
rispolvera il tuo golpe emancipato,
il maquillage per la tua fica,
e concima il tuo destino
che attende e aspetta Sancho Panza,
credendo sia il tuo principe azzurro in arrivo,
come un’ombra da San Babila fino al Terzo settore,
fino alle parole che ti hanno messo in bocca.
Ah… erano dunque parole, quelle?
Come le vecchie puttane che disturbano la gente,
la Brava Gente, il nome che usiamo più spesso
per difenderci dall’idea di essere qualcos’altro,
per l’onore, per la conservazione del titolo.
Andiamo cittadini! Andiamo! Cambiamo le cose!
Cambiamo il mondo, il mondo è qui fuori, andiamo!
A Genova c’è una scorciatoia per il sole.

Meglio diventare anonimi:
cittadino orgoglioso, non trovi le parole, eh?
cittadino incazzato, non trovi il nemico?
cittadino spaesato: DOCUMENTI!

Ma quello che vi disonora sono i vostri specchi
con cui trattate per alzarvi ogni mattino,
e non vi conoscete più,
tutt’al più qualche imprecisione oculare,
una barzelletta, qualcosa appena che vi faccia
sorridere, distrarre, divertire, associare a qualcosa,
esiliati nella solitudine di una speranza.
Avete risparmiato il meglio di voi stessi in banca,
dove avete i vostri affetti più cari, ma
per la rivoluzione non siete capaci.
Non basteranno i vostri short selling, i vostri c/c
e non vi resta nulla,
e questo niente, io, ve lo lascio!
La priorità penitenziaria, la sinergia budgetaria,
i vostri progetti di grandezza, di cambiamento.
Noi avremmo tutto questo prima o poi,
fra cento anni, nella gola della primavera.

Noi all’enciclopedia abbiamo chiesto le impronte,
e per quanto ci possa costare,
bisognerà fermarsi
e ricominciare.
Allora, ricominciamo!

Ascolta,
ascolta,
l'ho sentito dire spesso.
durante gli scontri e sui giornali,
“In un Paese civile queste cose non dovrebbero accadere”.
In un paese come il vostro, invece:
succede anche di peggio.
Ma voi no, vi credete immuni dalla violenza,
quando entra in casa vostra però, la violenza,
vi prende il panico, non è vero?
Benvenuti nella realtà.

Forse vi scandalizzerete soltanto,
riprenderete a far finta di nulla.
Vi stupirete sgomenti
quando vostro figlio ucciderà qualcuno.
Forse alcuni proveranno invece ad andare a fondo,
oltre la paura, e si metteranno in discussione,
e allora il moderatore gliela metterà nel culo.
Forse alcuni ammetteranno che chissà,
anche i loro figli, i loro studenti,
di cui non sanno nulla in fondo,
hanno appena ucciso una Poesia.
Forse alcuni si sentiranno sicuri:
“Qui da noi, tutto a posto”.
Forse alcuni smetteranno di cercare scuse,
per tirarsi fuori, per venirne fuori,
e a forza di tirarsi fuori,
saranno arrestati per atti osceni.
Forse qualcuno si accorgerà del sangue rappreso
quando porteranno il cane a pisciare.
Forse qualcuno avrà il coraggio di dirci,
perché una generazione
è stata massacrata in quei giorni,
sotto lo sguardo dei potenti,
delle forze dell’ordine,
delle istituzioni,
dei partiti,
delle organizzazioni sindacali,
dei gruppi sociali,
della televisione,
durante la pubblicità.
Forse qualcuno non dimenticherà mai,
il viso, le urla, la rabbia, il dolore,
portati via la notte sulle ambulanze,
fin dentro alla paura con le mani alzate,
nella solitudine dell’odio.

Eravamo giovani,
vostri figli e figlie.
Non siamo più:
carne da macello,
voci per i sondaggi,
merce in vendita,
cavie per le elezioni.

Forse qualcuno ci avrà guadagnato,
nessuno ha però vinto.
Forse altri ripenseranno
a quei luoghi della Terra per cui eravamo venuti,
dimenticati da Dio e sfruttati dall'uomo.
Avremo forse imparato una lezione. Ma voi
pagherete con la carta di credito. Voi,
la coscienza l’avete quotata in borsa.

La disperazione è ancora in città.
Bisognerà andare dall’altra parte del mondo
per dimenticare. Ma ho una speranza.

Messieurs, Mesdames, coi polmoni rattrappiti,
contate bene i vostri soldi, contateli di nuovo:
la proprietà amministrativa, i vostri bidet deserti,
nei bagni climatizzati. State pure seduti.
Perché voi parlate a voi stessi
come se foste voi stessi,
gli schiavi, e per paura
di perdere la statura morale,
vi addormentate la notte,
nella putrefazione dei sogni,
sotto il maquillage delle feste fine anno,
fra la lingerie e il rumore di un’ultima abitudine.
Camminando non vi accorgete nemmeno,
che il vostro passo non sposta più nulla.
E avete paura, paura di avere paura:
guardate là! Vi mostrano i colleghi il dito,
nel corridoio della noia,
dove passate ogni giorno.

Voi siete noi, ma noi… no.
E l’acqua che avete chiuso,
i muri, le grate, le barriere,
che avete costruito tutto intorno,
hanno spianato il grido,
che riempirà il vuoto
che vi rimonta alla gola,
come una marea all’alba di un disastro,
per la parata di un nuovo universo.

Fra le colonne del giornale le mie parole,
cancellate ai bordi, l’assenza
in cui sono sceso per cercare
nel guscio delle scelte:
il transatlantico, gli errori, ma ti ho visto
tornare con gli acquisti invernali
per la fine,
e la solitudine.
Là, fin dentro al letargo della gola
e nemmeno la poesia. Nemmeno la poesia
riuscirà a scassinare il tuo destino.

Per fortuna a nessuno
è dato ricominciare dove ha interrotto.
Anche se di uno che entra a far parte del trentesimo anno
non si smetterà mai di dire che è giovane.
Si sveglierà un giorno,
e non potrà più tornare indietro:
un orologio interno regolerà i suoi umori,
caricato dalla severità dello spirito,
ticchetterà come sul comodino delle scuse.
Quando lui, o lei, e con loro tu stesso,
implorerete un solo istante di pace
per poter spegnere la luce, un secondo,
e al buio non sarà più lui a dirigere lo sguardo,
a fare ricorso a un’immagine,
a strascico urlerai "andatevene!",
allora potrai domandarti: che farsene
di un grido che si leva da una tragedia?

Neanche la poesia oggi canta più… striscia.
Ha il privilegio tuttavia della distinzione...
non vi frequenta … anzi
vi ignora.

Si prendono le parole coi guanti, oggi:
a "mestruazioni" si preferisce "cose",
e si ripetono termini asettici, vigliacchi,
che non dovrebbero mai uscire dai laboratori,
dai trattati di medicina,
o dai dibattiti in televisione.
Lo snobismo scolastico oggi
consiste nel non usare che certe espressioni baciamano.
Produce geni per la burocrazia intellettuale:
dattilografi, becchini e archivisti. Eppure tutti
dobbiamo appartenere a una casta, a un ceto,
a un partito, a un movimento, a un gruppo.
Chi non si sottomette è muto.

Viviamo in un’epoca finale, e pertanto,
non abbiamo più niente d'epocale.
Nessun eroe, perché il destino
si accontenta dell’amore.
Si vende invece la musica come assorbenti
o il dentifricio come un farmaco generico,
la stessa disperazione si vende.
Non ci resta che trovarne la formula giusta,
tutto è pronto:
i capitali,
la pubblicità,
la clientela.
Chi dunque riparerà l’anima degli amanti tristi?

Coi nostri aerei che fregano il sole,
che ascoltano il silenzio prima dello schianto,
con la storia, con la vita,
e gli ideali in fila per la forca.
L’anima ormeggiata in mezzo alla strada,
sull'orlo dell’asfalto, di una finestra,
alla fine dell’universo,
confezionata come carne in scatola,
affusolata e piegata verso il nulla,
col naso all’in sù,
a veder passare le rivoluzioni,
e alla fine dell’universo, doppio clic del mouse,
per sparire al di là delle parole
più miserabili ancora.

Eppure all'inizio erano montagnardi,
i vostri antenati erano gente essenziale,
magari ignorante, è vero,
venivano da lontano però, i vostri antenati,
avevano fame,
ma per la povera gente sapevano lottare.
Col tempo avete sostituito
il fustagno col cachemire,
la Dispoli con Malé,
la Garbatella con Piazza Farnese,
L’Italia con Porto Alegre.
E i confronti di Piazza con quelli in TV.
E la politica?
L’avete abbandonata ai miliardari ridens,
ai fascisti mediatici, ai magistrati,
alla rifondazione della vostra cattiva coscienza,
al terrorismo, ai ragazzi di leva,
agli attori der cinema itagliano.
Soprattutto a questi,
che una sera d'inverno vi han detto:
non siete più di sinistra,
siete soltanto sinistri. Sinistri e perdenti.

E per quanto ve ne andiate in giro,
dall’altra parte del vocabolario,
continuate a dibattere con zelo del vuoto assoluto,
vi arrampicate sui grattacieli,
vi confondete nelle favelas del vostro cervello,
e nascondete i problemi
dietro al vostro savoir faire poliglotta.
A voi basta un bel copia-incolla
per sentirvi di nuovo nella storia, voi
mettete del fard sulle lacrime della noia.

La vostra gerarchia militante,
il vostro narcisismo suicida,
il vostro pathos fascista,
il vostro potere,
hanno cercato questa volta ancora
il nostro rumore,
a forza di slogan e manganelli, ma,
non dimenticate mai che,
se trovate ingombrante la Morale… allora
avete fra le mani la Morale degli altri.

Ma un posto ci sarà anche per questa solitudine,
un posto fra le gambe, la mano sempre pronta,
non già per i vostri zelanti idiomi appassionati,
ma congiunte in preghiere blasfeme.
Perciò piscio, piango, eiaculo,
afferro la solitudine e l’accompagno in manifestazione.
Mi scopro a frugare in fondo a un’abitudine,
fra il dolore e la disperazione,
scansando il male che fa.
Che tanto, col tempo, il davanti e il di dietro
si confondono, e non ricordi più nulla e tutto si ripete.
Col freddo che fa, i ricordi e i lacrimogeni,
in mezzo alle parole che dicevano
“prendi freddo, torna presto”.
Ma le parole non sono più parole,
ma un condotto trasparente,
attraverso cui gli analfabeti
hanno la coscienza a posto ma…
la solitudine,
la disperazione,
la grazia,
la povertà,
le forme più alte di ribellione,
questi sono i canti più belli,
che mettono del sangue sulle cifre.
Come se uno debba ricordare nel 2001,
che un popolo felice
val bene la testa di un re!

Per questo motivo, io,
la poesia, la metto online.
Si sente sola qualche volta, io no.
D’altra parte la scrittura
è un forma superiore di disperazione,
per ora la chiamerò: parola. E cestino le vostre abitudini.
Il resto, io, me la tengo nelle mutande. E rinuncio.
Rinuncio!
Rinuncio!
Rinuncio!
Vieni con me, mon amour?

 
 
Copyright (C) 2001 Riccardo Bagnato.