Confessione | ||
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Mi piace, cara amata, andare in guerra e dare il ritmo ai miei compagni ancora fieri e belli e a quelli a terra marciare a fianco, marciare dritto. Mi piace battere il tamburo incitare alla vittoria respirare l'aria gonfia di paura e agguantare per un attimo la storia. Mi piace che mi grandini sul viso la fitta sassaiola delle schegge le lacrime ed il sangue le urla, gli ordini ed i rantoli di un paese allo sbaraglio quale il nostro benché sudicio d'inganni. Così, quel giorno, quando noi partimmo, alla finestra ti guardai, fissai il tuo sguardo seguire la mia flebile andatura, mentre a ciò che mi rimane ora, come un bimbo al seno della madre, mi tengo forte prima di dormire al guscio della mia armatura. Ora son ferito e sanguino nel fango, non suono più il tamburo, un soldato passa, un compagno, strappando l'ultimo mio grido. Per ore in quella pozza ho urlato - Fratelli, son ferito! Portatemi a morire! E invece in fila indiana e con i piedi passate e fate torto a quell'amico in quella piccola, ormai lontana e sozza, solitudine melmosa, fossi morto. Passate vicino al cuore di quest'uomo che non solo batte, ma vi dà il passo e lontano andate, più fieri ancora e non vedete come piano piano il fango e il sangue mi riempiono la bocca, che il campo è esangue e il mio, ad uno ad uno, è il corpo che il vostro tocca.- Così cerco di riordinare sul mio viso gli ultimi ricordi ancora intonsi ancora in mente e rivedo le tue labbra, i tuoi capelli e il tuo sorriso e tu che non sapevi avermi amato, come un soldato ama il ferro. Amore mio, ma cosa importa allora se il mio spirito è ferito se il mio spirito è perverso che sia giusta o sbagliata questa guerra se ora dal collo penzola il mio capo? Sul tappeto, fra i cadaveri ed i versi vorrei dirti qualcosa che io pensi veramente voglio dirti di quell’attimo in cui presi la decisione di partire e poi ti persi, dell'inutile succedersi dei sensi, cui affidando il meglio di un pensiero, ti ho amata e ho stretto forte tra le dita la sola ed unica poesia che ho mai finita. Qui forse anche il morire non fa male se penso a te soltanto e solamente sui morti di oggi piangere e domani col dolore in cuore e la costanza in grembo muoverti da parte a parte fra la gente e non credere a quanto dicono quei cani: che abbiamo perso, perduto ogni campagna che in mille sono morti e mille son fuggiti lasciando i corpi degli amici sulla strada. Non son fuggiti, non sono morti! Legati ai polsi, impiccati a tralci d'olmo, perduti dentro il fango o immobili nell'acqua quelli che non hanno fatto mai ritorno e quelli che non han lasciato traccia, han combattuto malgrado loro e sono altrove. E importa, dolce amica, se il loro corpo non si trova? Se il vento e la terra li ha nascosti? Che sia giusta o sbagliata questa guerra? Se infine vinta o persa la battaglia, non son tornati a raccontarvi a cosa l'ombra della morte serva? E in mente mi ritorna quello stagno che il dolore e i ricordi hanno sommerso, quando un uomo parlando un'altra lingua mi raccolse moribondo e che fra tanti mi portò sul carro dei caduti. Fra sterpaglie, grida, e tronchi umani sembrava che ognuno pensasse a voi lontani mentre su quel carro tutti quanti come piccoli di uccelli che han perduto i genitori da quel nido son volati ad uno ad uno fuori, senza forza e senza piume in volo, senza meta alcuna, invisibili e leggeri. E invece continuava a battere il mio petto a dare il passo alla schiena di un pilota finché giunsi in un paese sconosciuto costeggiando una gialla insenatura e qualche anfratto lungo un fiume e senza sosta fino ad ora. Da tanto con le scarpe verniciate sopravvivo raccontando degli eroi che rubavo da bambino nel cortile sui giornali, fra le immagini, sotto il sole. E mi è caro ripoterli declamare, ma le rime ormai non fanno più impressione. Cosa importa allora, essere tornato? Che in cima a un palco o sulle piazze il mio tamburo suoni, dia ritmo al tempo, se tu non sai che ho pubblicato in quel paese uguale al nostro molti versi che raccontano del mondo e dei dispersi degli annosi e costanti inganni di uno stato, mentre ora con quei figli che in Europa nel frattempo tu hai nutriti attendi e guardi e ti controlli sullo specchio della gente? Ora mi piace spettinato camminare e mi diverto a fare il sordo, mi sento vivo più di prima e perciò solo. Ma soprattutto mi piace divagare e mi è caro il grugno dei suini che, guardando il disco della luna, piangono e singhiozzano alle stelle, e annusano e frugano nel puzzo della notte la quale segna e segue il mio passare. Anche il muso dei cani mi diverte che ai duelli preferiscono gli agguati, e quello degli uccelli mentre parlo quando sgocciola la luce e dentro a un fuoco sembra rompersi in un tuorlo il fato, nel piatto infinito oceano e diurno sfarinandosi nel buio di un istante. Quando l'aria si calma e si fa bruna e come fosse il suo strascico nuziale scodinzola una bianca velatura mentre appare nella notte nuovamente qualcosa che ad amare non fa male. Qualcosa dal cui dorso penzola un vestito, dal cui capo spuntano rubini e lacrime preziose bianche e rosa come punte di un forcone tra la paglia scivolando sulle gote raggiungono e lì posa sul seno acerbo una voce le parole “… appresta amore, non tardare”. E mi raggiungono e sembra quasi che s'attacchino come il fuoco in un granaio i miei pensieri. Ma son cambiato e il cuore è incerto non batte al pari del prestigio conquistato, come un gatto sonnecchia e si fa spazio con gli artigli ancora intrisi di sporcizia: fra i denti il puzzo e il lento passo di chi torna come grappolo maturo verso un posto per dormire, e si abbandona sulla terra come un sasso. Buonanotte allora, dolce amata, non mi ha ucciso il fango, non mi ha avuto il rullo dei tamburi né il dolore o il sangue dei compagni né lo sguardo dei fucili, né la fame, l'odio o il clamore, ma combatto fino a sera in questo stato dopo aver saputo a lungo amare, dopo aver capito infine come e non da chi posso esserlo di nuovo finalmente e in compagnia d’un angelo ritornare. |
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Modena, 12-03-1999 |
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2002 Riccardo Bagnato [www.bagnato.it]
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